IL PRETORE All'odierno dibattimento il p.m. ha sollevato questione di legittimita' costituzionale degli artt. 3 e 6, comma secondo, del decreto-legge n. 79/1995, convertito nella legge 17 maggio 1995, n. 172, in relazione agli artt. 3, 10, 25, 77, 9, comma secondo, 32 e 41 della Costituzione. Lo stesso p.m. aveva, in data 12 dicembre 1994, proposto analoga questione in relazione agli artt. 3 e 6, comma secondo, del decreto-legge n. 629/1994 ed il pretore, in conformita' a quanto richiesto dall'ufficio del p.m., aveva sollevato eccezione di incostituzionalita' con riguardo alla formulazione dell'art. 21, primo e terzo comma, della legge 10 maggio 1976, n. 319, per effetto del decreto-legge n. 629/1994, allora in vigore. La Corte costituzionale non ha potuto prendere in considerazione l'eccezione sollevata a causa dell'intervenuta decadenza del citato decreto-legge. Il decreto n. 79/1995 e' stato convertito nella legge 17 maggio 1995, la quale ha introdotto norme sostanzialmente analoghe a quelle della cui legittimita' costituzionale si e' dubitato nella precedente ordinanza di rimessione alla Corte. Sulla base, infatti, della nuova formulazione del terzo comma dell'art. 21, legge 10 maggio 1976, n. 319, quale introdotta dall'art. 3 del decreto convertito nella legge n. 172/1995, l'inosservanza dei limiti di accettabilita' di cui alle tabelle allegate alla legge n. 319/1976, e' sanzionata penalmente solo con riferimento agli scarichi provenienti da insediamenti produttivi. La stessa fattispecie e', invece, con riferimento agli scarichi delle pubbliche fognature, quali sono quelli oggetto del procedimento in esame, punita solo con sanzione amministrativa, a meno che non siano superati i limiti di accettabilita' inderogabili per i parametri di natura tossica, persistente e bioaccumulabile di cui al n. 4) del documento unito alla delibera 30 dicembre 1980 del Comitato interministeriale istituito in base alla legge Merli. Analogamente, con il secondo comma dell'art. 6 del decreto-legge convertito e' stato aggiunto, cosi' come operato dal precedente decreto oggetto della eccezione di incostituzionalita', un ulteriore comma all'art. 21 della legge n. 319/1976, alla stregua del quale l'effettuazione di scarichi di pubbliche fognature senza aver chiesto l'autorizzazione integra un mero illecito amministrativo, a differenza di quanto previsto per gli scarichi da insediamenti produttivi dai primi due commi dell'art. 21, lasciati immutati. Pertanto possono essere integralmente ribadite le considerazioni in ordine ai diversi profili di illegittimita' costituzionale, gia' prospettate dal p.m. e condivise dal pretore di Roma nell'ordinanza del 12 dicembre 1994 e riproposte dal medesimo p.m. all'odierno dibattimento. Questo pretore ritiene, infatti, che la questione sia rilevante e non manifestamente infondata. Quanto alla rilevanza si osserva che gli imputati sono stati tratti a giudizio per la violazione degli artt. 21, primo e terzo comma, della legge n. 319/1976, la cui applicazione condurrebbe necessariamente ad una pronuncia di proscioglimento perche' i fatti contestati non sono piu' previsti dalla legge come reato, risultando le imputazioni indicate dai capi 1 a 79 depenalizzate dal citato art. 3 e l'imputazione di cui al capo 80 depenalizzata dall'art. 6. Con riferimento alla valutazione della non manifesta infondatezza, in conformita' con le argomentazioni svolte dal p.m., che sostanzialmente si riportano, si rileva quanto segue. 1. - Violazione dell'art. 3 della Costituzione. Si osserva nuovamente che nel contesto sanzionatorio della legge n. 319/1976, per come si delineava prima delle modifiche definitivamente apportate con l'art. 3 della legge n. 172/1995, il reato piu' grave e significativo era quello previsto dal terzo comma dell'art. 21 della legge. Tale normativa, anche alla luce della sentenza n. 1766/1993 delle s.u. della cassazione, era applicabile a tutti gli scarichi, quale che ne fosse la provenienza. Ebbene, se puo' essere ritenuto ragionevole l'intento legislativo di sanzionare solo amministrativamente gli scarichi provenienti da insediamenti civili, (potendosi presumere che gli stessi siano normalmente caratterizzati da un carico inquinante minore rispetto agli scarichi degli insediamenti produttivi e quindi meno dannosi per l'ambiente), non altrettanto puo' dirsi con riferimento agli scarichi delle pubbliche fognature. Infatti a queste ultime possono affluire anche scarichi provenienti da insediamenti produttivi, (evenienza, questa, disciplinata gia' nel corpo normativo della legge Merli e poi, sotto il profilo piu' squisitamente tecnico, dalla delibera 30 dicembre 1980 del Comitato interministeriale per la tutela delle acque dall'inquinamento e, recentemente, dalla direttiva Cee n. 271 del 21 maggio 1991), per cui non e' possibile fondare un giudizio preventivo e generale di minor pericolosita'. Alla stregua della disciplina sanzionatoria ormai definitivamente introdotta, dunque, mentre l'esercizio di un singolo scarico da insediamento produttivo, in violazione delle tabelle di cui alla legge n. 319/1976, viene sanzionato penalmente anche qualora il superamento dei limiti sia modesto, costituisce semplice illecito ammnistrativo l'esercizio dello scarico di una pubblica fognatura alla quale affluisce una pluralita' di scarichi provenienti da insediamenti produttivi, anche qualora lo scarico terminale superi in maniera rilevante i limiti tabellari ed apporti, quindi, un concreto nocumento alla situazione ambientale. Il permanente rilievo penale attribuito agli scarichi, anche delle pubbliche fognature, qualora vengano superati i limiti di cui alla cd. "lista nera" della Cee costituisce, rispetto al decreto oggetto della precedente eccezione, una novita' del tutto insufficiente. Tali parametri, infatti, possono essere superati da uno scarico fognario solo quando nello stesso confluiscono scarichi produttivi con notevole potenzialita' inquinante e cioe' quegli scarichi che sono gli unici ad utilizzare le sostanze di cui alla lista e che, peraltro, proprio in ragione di tale potenzialita', non vengono di solito addotti in pubbliche fognature. La nuova previsione normativa fonda, pertanto, ancora una volta, la differenzazione della disciplina sanzionatoria non gia', come sarebbe ragionevole, sulla potenzialita' inquinante, (sia pure presunta), degli scarichi e quindi sulla gravita' del fatto, ma in ultima analisi sulla qualifica del soggetto titolare dello scarico terminale, (imprenditore ovvero amministrazione pubblica). Anzi, nella nuova legge si rinviene un'esplicita conferma di tale assunto nella previsione di cui all'ultimo periodo del terzo comma dell'art. 21 della legge n. 319/1976, (modificato dall'art. 3 della legge n. 172/1995), dove e' inserita una causa di non punibilita' per quei "pubblici amministratori che alla data di accertamento della violazione dispongano di progetti esecutivi cantierabili finalizzati alla depurazione delle acque". Il sospetto di violazione dell'art. 3 della Costituzione appare sotto tale profilo non manifestamente infondato, tanto piu' se si considera che la giurisprudenza e' ormai da tempo pacificamente orientata nel senso di ritenere preminente, nell'ambito della verifica volta ad individuare la disciplina normativa concretamente applicabile al singolo scarico, la valutazione delle caratteristiche effettive dello scarico stesso e non gia' l'accertamento circa la relativa provenienza (cfr. ss.uu. 16 novembre 1987, Ciardi; sez. VI 2 ottobre 1992, n. 9619; sez. III 206091, n. 6846). Ma ancora piu' corposo si manifesta il sospetto di violazione dell'art. 3 della Costituzione, ove si confronti la condotta depenalizzata dalla legge n. 172/1995 con quella dalla stessa non modificata, (nonostante il lungo periodo di tempo trascorso dall'emanazione del primo decreto-legge in questa materia), prevista dall'art. 23, primo comma della legge n. 319/1976 per la quale e' prevista la pena dell'ammenda fino a 5 milioni. Tale ultima norma, infatti, prevede la suddetta sanzione per "chiunque apre o comunque effettua nuovi scarichi prima che l'autorizzazione da lui richiesta nelle forme prescritte sia stata concessa". Ne deriva la paradossale conseguenza che una condotta in concreto inquinante come quella di effettuare scarichi di pubbliche fognature superando i limiti di tollerabilita' e' punita con una mera sanzione amministrativa, mentre una violazione formale, quale quella di aver attivato uno scarico, (non necessariamente inquinante), prima che l'autorizzazione, gia' richiesta, sia stata rilasciata, costituisce una fattispecie di rilievo penale. Ed ancora la violazione dell'art. 3 della Costituzione per disparita' di trattamento si rileva dal confronto tra il disposto dell'art. 23, primo comma e l'ultimo comma dell'art. 21, della legge n. 319/1976, introdotto dall'art. 6, secondo comma, della legge di conversione. Infatti, con tale disposizione e' stata depenalizzata la condotta costituita dall'effettuazione di scarichi civili o di pubbliche fognature senza aver richiesto l'autorizzazione, con la conseguenza che e' penalmente sanzionata la condotta di chi attivi uno scarico di pubblica fognatura, prima del rilascio dell'autorizzazione richiesta, mentre costituisce illecito amminiistrativo la condotta, certamente piu' grave, di chi attivi lo scarico senza neppure richiedere l'autorizzazione stessa. Il paradosso normativo e' ancora piu' evidente laddove si consideri che, essendo rimasta inalterata la previsione di cui al secondo comma dell'art. 23 della legge n. 319/1976, (secondo il quale nel caso in cui l'autorizzazione richiesta non venga concessa si applicano il primo ed il terzo comma dell'art. 21), l'esercizio dello scarico con autorizzazione richiesta e non concessa viene punito con la pena alternativa dell'arresto o dell'ammenda, mentre rimane sempre nella sfera dell'illecito amministrativo l'esercizio dello scarico, che, non essendo mai stata richiesta alcuna autorizzazione, e' sfuggito totalmente al controllo dell'autorita' titolare del potere autorizzatorio. La violazione del limite della ragionevolezza appare ancora piu' evidente alla luce della seguente considerazione. L'art. 3 della legge n. 172/1995 prevede il pagamento di una somma da L. 3.000.000 a L. 30.000.000 per l'inosservanza dei limiti di accettabilita' di cui all'art. 21, terzo comma della legge n. 319/1976; quindi, (con riferimento al decreto di citazione emesso nel presente procedimento), tale sarebbe la sanzione applicabile per 79 scarichi di pubbliche fognature siti nel comune di Roma per i quali, accertato il loro carattere inquinante, e' stato contestato il superamento dei limiti tabellari, con riguardo a parametri diversi rispetto a quelli di natura tossica persistente e bioaccumulabile. L'art. 6 (con l'introduzione di un nuovo ultimo comma all'art. 21 della legge n. 319/1976), prevede invece la diversa e maggiore sanzione del pagamento di una somma da L. 10.000.000 a L. 100.000.000 "per chi apre o comunque effettua scarichi ... delle pubbliche fognature servite o meno da impianti pubblici di depurazione ... senza aver richiesto l'autorizzazione"; con riferimento alle imputazioni contestate, tale maggiore sanzione sarebbe applicabile per i fatti di cui al capo 80 dell'imputazione, riferito a n. 6 scarichi nuovi per i quali si e' contestata soltanto la mancata richiesta di autorizzazione. Ne consegue, ed in cio' si ravvisa l'irragionevolezza, che viene punito piu' severamente l'amministratore pubblico che non chiede l'autorizzazione quando deve consentire l'apertura di un nuovo scarico fognario, (che potrebbe in ipotesi non avere carattere inquinante), rispetto all'amministratore che, indipendentemente dalla richiesta di autorizzazione dispone l'effettuazione di uno scarico fognario sicuramente inquinante. La disparita' di trattamento e l'incoerenza logica che derivano da tale situazione non possono rinvenire alcuna adeguata giustificazione, atteso che, come ha rilevato la Corte costituzionale (sent. n. 7/1963), il principio di uguaglianza rimane preservato solo laddove le disparita' di trattamento legislativamente contemplate si fondino su presupposti logici obiettivi e su esigenze concrete. 2. - Violazione degli artt. 9, secondo comma, e 32 della Costituzione. Come e' noto secondo la giurisprudenza costituzionale il concetto di paesaggio deve intendersi nell'accezione di "ambiente naturale" e quindi di ecosistema. Pertanto la mancata previsione di una norma penale che sanzioni comportamenti profondamente incidenti sulla qualita' dell'ambiente, come l'effettuazione di scarichi di pubbliche fognature che superino i limiti di accettabilita', o l'attivazione dei predetti scarichi senza avere richiesto la preventiva autorizzazione, determina una diminuzione dell'efficacia preventiva e dissuasiva della disciplina di cui si tratta. Tale disciplina, inoltre, poiche' non differenzia il trattamento sanzionatorio a secondo della natura delle acque che recapitino nelle pubbliche fognature, e, quindi in base alla loro effettiva potenzialita' inquinante, ma solo in base al dato formale della provenienza, (da insediamento produttivo o da pubbliche fognature), non permette un'adeguata e sostanziale tutela del paesaggio. Da quanto sopra esposto deriva anche il sospetto di contrasto tra le norme indicate e l'art. 32 della costituzione che tutela il diritto alla salute giacche' tale diritto ricomprende per costante giurisprudenza costituzionale il diritto all'ambiente salubre. Il diritto alla salute cosi' inteso non puo' certo essere adeguatamente tutelato, allorquando il legislatore, oltre a non fissare limiti certi per gli scarichi provenienti da pubbliche fognature, (si vedano infatti le nuove norme che rimettono alla discrezionalita' delle singole regioni la fissazione dei limiti di accettabilita' per le pubbliche fognature), costruisce la tutela preventiva e l'intervento repressivo senza alcun riguardo alla potenzialita' nociva dello scarico, ma solo alla titolarita' dello stesso. 3. - Violazione dell'art. 10 della Costituzione. Un altro sospetto di incostituzionalita' delle norme sopra indicate sorge sotto il profilo della loro mancata conformazione alle norme adottate in sede comunitaria in materia di acque reflue urbane con la direttiva Cee n. 271 del 21 maggio 1991 in quanto norme cui il nostro ordinamento giuridico e' tenuto costituzionalmente ad uniformarsi e che, ai sensi della predetta direttiva, avrebbe gia' dovuto recepire dal 30 giugno 1993. In particolare l'art. 2 della direttiva pone una netta distinzione nell'ambito delle acque reflue urbane, tra le acque reflue domestiche e le acque reflue industriali. A tale distinzione, determinata dalla diversa capacita' inquinante dei due generi di acque, e' collegata una diversa disciplina fondata sulla necessita', per le acque industriali che affluiscono in reti fognarie, di regolamentazioni ed autorizzazioni specifiche nonche' di specifici controlli (artt. 11 e 13). Inoltre, la direttiva Cee stabilisce, al fine di evitare negative conseguenze sull'ambiente, specifici requisiti per le sole acque reflue industriali che confluiscono in reti fognarie e non invece per le acque reflue domestiche che hanno il medesimo sbocco (allegato 1 C). Pertanto, poiche' nell'ambito della normativa comunitaria la natura delle acque che confluiscono nelle pubbliche fognature rappresenta elemento qualificante ai fini della normativa che ne regolamenta lo scarico, deve concludersi che l'attuale disciplina statuale, (quale emerge dagli artt. 3 e 6, secondo comma della legge n. 172/1995), in quanto prescinde completamente dalla considerazione dell'elemento discriminante dinanzi indicato, riservando un identico trattamento sanzionatorio per qualsiasi scarico nelle pubbliche fognature, quale che sia la natura delle acque che in esse affluiscono, e' in evidente contrasto con la direttiva comunitaria. Del resto il legislatore appare ben consapevole del contrasto tra la disciplina introdotta e quella comunitaria, in quanto si e' preoccupato di precisare, all'art. 1, quarto comma, che "le disposizioni del presente decreto (rectius: legge), si applicano in attesa dell'attuazione della direttiva Cee del 21 maggio 1991". Al riguardo si deve osservare che tale attuazione doveva avvenire, secondo la legge comunitaria 1993, (legge 22 febbraio 1994, n. 146), entro marzo 1995. E' particolarmente grave che lo Stato italiano, gia' due volte condannato dalla Corte europea di giustizia per la permissivita' del sistema autorizzatorio e per l'inadeguatezza delle sanzioni contemplate dall'art. 22 della legge Merli (Corte di giust. 28 febbraio 1991 e 13 dicembre 1990), ed ormai inadempiente rispetto al termine previsto per l'adeguamento della normativa nazionale alla direttiva Cee n. 271 del 21 maggio 1991, continui a legiferare in contrasto con la predetta disciplina. Peraltro, cio' accade in una situazione in cui la costante giurisprudenza della Corte costituzionale afferma che tutti i soggetti competenti a dare esecuzione alle leggi sono giuridicamente tenuti a disapplicare le norme interne incompatibili con la normativa comunitaria direttamente applicabile nell'ordinamento interno, (Corte cost. 11 luglio 1989, n. 389). 4. - Violazione dell'art. 41 della Costituzione. Un ulteriore sospetto di incostituzionalita' si individua nel contrasto tra le disposizioni di cui agli artt. 3 e 6, secondo comma, del decreto convertito e l'art. 41 della Costituzione. A tale ultima norma, che vieta iniziative economiche private "in contrasto con l'utilita' sociale", viene generalmente ricondotto, al fine di fornirgli veste costituzionale, il principio comunitario, espresso in numerose direttive in materia ambientale, del "chi inquina paga". In proposito e' da ricordare la sentenza della Corte costituzionale n. 127 del 16 marzo 1990, la quale ha negato che il "costo eccessivo" possa giustificare la mancata adozione, da parte delle imprese, delle migliori tecnologie disponibili per ridurre le emissioni inquinanti. Ebbene e' evidente che le citate norme del decreto convertito, laddove escludono, in via generale, la sanzionabilita' penale per gli scarichi delle pubbliche fognature, pur se agli stessi affluiscono scarichi di insediamenti produttivi, vengono di fatto a penalizzare, anche sul piano della libera concorrenza, quelle imprese che, servite da scarichi che non recapitano in pubbliche fognature, abbiano affrontato rilevanti investimenti per adeguare i propri impianti alla normativa in vigore e si trovino magari esposte al rischio della sanzione penale (art. 23, della legge n. 319/1976), per avere iniziato l'attivita' prima di avere formalmente ottenuto l'autorizzazione richiesta. 5. - Violazione degli artt. 25 e 77 della Costituzione. Il principio della riserva di legge in materia penale possiede, quale primo e fondamentale significato, quello secondo il quale le scelte di politica criminale sono monopolio esclusivo del Parlamento. L'ammissibilita' che nuove norme di diritto penale siano introdotte attraverso decreti-legge o decreti legislativi e' connessa alla circostanza che, in entrambi i casi si realizzi e sia assicurato, comunque, l'intervento del Parlamento in posizione sovraordinata, ora quale organo delegante, (art. 76 della Costituzione), ora quale organo cui e' rimesso il potere di conferire stabilita' e durevolezza, attraverso la legge di conversione, a disposizioni normative precarie e soggette a decadenza in caso di inutile decorso del tempo del termine di 60 giorni dettato dall'art. 77, ultimo comma della Costituzione. Nel caso di specie, attraverso la reiterazione a catena di decreti-legge non convertiti disciplinanti l'identica materia penale si e' di fatto realizzata la sottrazione al Parlamento della sua esclusiva competenza a disporre in materia penale, con l'inammissibile assunzione da parte dell'esecutivo del relativo potere di bilanciamento e di valutazione degli interessi che in materia penale e' di esclusiva competenza dell'organo assembleare rappresentativo della sovranita' popolare. Come gia' esposto dal pretore di Roma nella precedente ordinanza di rimessione alla Corte, e' opportuno evidenziare come, in seguito alla reiterazione dei decreti nella stessa materia protratta per oltre un anno, si possono determinare effetti definitivi, quale il giudicato, non modificabili in sede giudiziaria, con la conseguente gravissima compressione dei diritti dei singoli, resa ancora piu' incisiva dalla disparita' di trattamento che potrebbe verificarsi ove due fattispecie identiche, ma giudicate sotto la vigenza di un diverso decreto legge, vengano diversamente giudicate. Va ulteriormente osservato che la reiterazione a catena, per oltre un anno, di diversi decreti-legge in relazione alla stessa materia, denota in modo palese la carenza dei requisiti della "necessita' ed urgenza" indicati dall'art. 77, secondo comma della Costituzione. Tali requisiti, infatti, se potevano ipotizzarsi come esistenti rispetto al primo dei decreti, sono certamente venuti meno ad un anno di distanza e cioe' dopo un periodo di tempo tale da consentire la normale legiferazione del Parlamento in via ordinaria. Tutte le considerazioni sopra svolte con riguardo al sospetto di incostituzionalita' per contrasto con la norma di cui all'art. 77 della Costituzione devono essere reiterate anche con riferimento alla legge di conversione che ha recepito il d.-l. 17 marzo 1995, n. 79, apportandovi solo alcune modifiche. Cio' in quanto, con la recente sentenza n. 29 del 27 gennaio 1995 la Corte costituzionale, mutando giurisprudenza riguardo al passato, ha statuito che "la pre-esistenza di una situazione di fatto comportante la necessita' e l'urgenza di provvedere tramite l'utilizzazione di uno strumento eccezionale, quale il decreto legge, costituisce un requisito di validita' costituzionale del predetto atto, di modo che l'eventuale evidente mancanza di quel presupposto configura tanto un vizio di legittimita' costituzionale del decreto-legge, in ipotesi adottato al di fuori dell'ambito delle possibilita' applicative costituzionalmente previste, quanto un vizio in procedendo della stessa legge di conversione, avendo quest'ultima, nel caso ipotizzato, valutato erroneamente l'esistenza dei presupposti di validita' in realta' insussistenti e, quindi, convertito in legge un atto che non poteva essere legittimo oggetto di conversione". Pertanto la Corte ha affermato la sindacabilita' dei presupposti di necessita' ed urgenza anche nell'ambito dell'esame condotto con riferimento alla legge di conversione.